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Vigevano La Chiesa del Cristo

Opera a stampa di Don Cesare Silva, tutti i diritti riservati
divieto di copia e duplicazione salvo beneplacito dell'Autore.


 

Don CESARE SILVA

LA CHIESA DEL SS. CROCEFISSO

o CRISTO DELLA RESEGA

VIGEVANO

presentazione di

S.E. mons. Claudio Baggini

Vescovo di Vigevano

 

 
 

 

INTRODUZIONE

Se la storia delle chiese “maggiori” come le parrocchiali, le basiliche, i santuari, le chiese conventuali, quelle dei monasteri e le chiese delle confraternite ci raccontano, via via, i fatti salienti della fede di una certa comunità, la presenza delle piccole chiese di rione, quando sono riuscite a sopravvivere e tengono, a tutt’oggi, la porta aperta al bisogno religioso della gente che lì abita e vive, testimonia qualche aspetto singolare della pietà e della devozione legate a particolari momenti del territorio circostante.

Ed intorno alla nostra chiesa del Cristo è sorta una suggestiva tradizione. Si racconta che dopo la sua costruzione un eremita scelse di diventare il custode, la sentinella e la “voce”. Con la sua forte testimonianza di rinuncia al mondo, di preghiera a Dio e di ascolto delle necessità dei fratelli avrebbe animato la fede di chi dimorava nei dintorni. Ed anche oggi la rievocazione di questa singolare figura, quasi sospesa in un tempo passato e indefinito, induce a pensare e a cogliere con maggiore intuito, suggerimenti ed impulsi a rivedere la propria vita.

Per questo motivo sono molto grato al “nostro” caro don Cesare Silva per la preziosa illustrazione della storia della nostra chiesa del cristo offerta nel volume che ha scritto con la competenza e la passione che lo contraddistinguono. Certo, la tradizione dell’eremita non è, purtroppo, garantita da precisi riscontri documentari che, invece, sono la materia prima per l’opera di uno storico come don Cesare. Ma, comunque, è motivo di gioia conoscere quale gioiello di arte il rione, qualche secolo fa, ha costruito sul fondamento di una credenza popolare.

Mi auguro che l’opera di don Cesare entri in tutte le famiglie che da qualche hanno sentono, di sera, la voce argentina delle campane del Cristo e accorrono alle celebrazioni per prolungare, nel tempo, la preghiera di quell’antico eremita che è stato, per molti vigevanesi, una “voce” di richiamo e di sostegno per la fede.

Sono persuaso che l’ispirazione a scrivere della chiesa del Cristo sia venuta a don Cesare vedendo la presenza, l’opera e il fervore di molti devoti, di tanti benefattori e di infaticabili collaboratori. Anche a questi amici, allora il mio plauso e la mia riconoscenza.

Vigevano, 4 giugno 2005               

Mons. Stefano Cerri

Prevosto di San Pietro Martire


La prima volta che vidi la chiesa del Cristo, dentro, fu per la circostanza singolare del furto di un quadro e di antiche suppellettili: era sera, d’inverno, e non riuscii a decifrare l’architettura della chiesa, ingabbiata nei ponteggi e con la sagrestia ingombrata di sedie, banchi, e un pò di tutto. Qualche tempo dopo, il Prevosto mi portò a vederla a lavori quasi terminati, dovendo decifrare e ricostruire le frasi del Breviario, quello ormai desueto, dipinte nei cartigli. Tornando, lungo la Costa, mi chiese se mi sarebbe piaciuto occuparmene per il prossimo mese di maggio, per la recita del Rosario, a metà tra chierichetto e sagrestano; avevo sedici anni e con una certa idea in testa...e mi sembrava di trovare l’America. E venne poi  quel 1 maggio del 1996. La chiesa era stata restaurata, ma era ancora priva del pavimento, e con la sagrestia inagibile; sull’altare era una tovaglia prestata dalla Parrocchia, i vecchi candelieri, dalla candele – in legno dipinto- traballanti e sbilenche, stavano allineati con vasetti di vetro scompagnati per le rose rosse dell’annoso cespuglio rampicante sulla scala del cortile, sopravvissuto chi sa come all’incuria e al cantiere: in mezzo una statuetta della Madonna in gesso prestata da una vecchiarella. Per i fedeli del vicinato che cominciano ad affollare le Funzioni, chiamati dal suono della campana (ricordo l’arrampicata per attarcarvi la corda, qualche giorno prima), si riportano in chiesa dalla legnaia i vecchi inginocchiatoi, gli Scout prestano le panchine, mentre da cantine di gente amica saltano fuori sedie impolverate per le persone che ogni giorno aumentano.

Sono passati già nove anni, e gli sviluppi e le opere sono sotto gli occbi di tutti, e questo per merito dei tanti amici che, fattivamente, hanno preso a cuore la chiesa del Cristo. A loro va la mia gratitudine, e il ricordo a Dio quelle rare volte che vengo celebrare la Messa sotto l’immagine del Crocefisso, quella stessa davanti alla quale, dopo la Messa della Festa, annunciava il mio ingresso in Seminario don Stefano, che sei anni dopo, assisteva la mia seconda Messa il lunedì dopo la mia Ordinazione. Nella Messa che si suole officiare per i morti, ricordai i miei nonni, i parenti, gli amici, quanto avevi incontrato nel corso della mia vita ed erano già giunti al riposo eterno. E tra questi, il fratello del nostro Parroco, don Pietro Cerri, che ebbi la fortuna di avere come insegnante al Liceo, e prima, di accompagnare per diversi anni, lungo il rione della parrocchia vicino al Cristo, per la benedizione delle case, come chierichetto. In suo ricordo giungano, ai benevoli  miei lettori, queste pagine.

                                                                                                                      L’Autore

Festa del Cuore Immacolato di Maria 2005

 

INDICE

 

I    –    Un angolo di Vigevano nel sec. XVII.

II   –    L’antico affresco

III  –    Francescani e Domenicani

IV  –    Il grande Caramuel

V   –    La chiesa vecchia

VI  –   La chiesa nuova

VII -    Sviluppi

VIII -  Un altare, una campana e qualche indulgenza

IX   -   L’eremita

X    -   i restauri del 1901

XI   -   la decadenza e la rinascita

XII  -   festa e tradizioni

XIII -   un pò di catechesi

XIV -   guida artistica

XV -   preghiera al SS. Crocefisso


I– UN ANGOLO DI VIGEVANO NEL SEC. XVII.

Ai giorni nostri la chiesetta del Cristo, privata da decenni del suo vasto sagrato che si allungava sul davanti, chiudendo un’area curiosamente a pianta trapezioidale, pare soffocata dal traffico dell’incrocio di cinque strade su cui si affaccia, e mortificata nelle proporzioni dal grande condominio piazzato di fronte e dai tanti altri che stanno sorgendo nelle vicinanze, in luogo delle dismesse fabbriche di scarpe. Dall’altra parte della strada, nascosto da un muro cadente, anche il vecchio mulino della resega sembra smarrirsi tra la strada e le case che lo circondano. 

Com’è difficile immaginare quest’angolo della nostra città al tempo in cui inizia la storia della chiesa del Cristo, che andiamo a raccontare, più o meno quattro secoli fa.  Dobbiamo immaginare di trovarci presso un crocicchio di campagna, lungo la strada campestre che correva lungo le vecchie mura di Vigevano, chiamati terraggi perchè formate da due muraglioni in mattoni e ciotoli del Ticino collegati da un terrapieno sopraelevato. Un tratto significativo del camminamento sulle mura si conserva proprio da queste parti, tra la via dei Domenicani (dietro il mulino di Porta Nuova, presso le ortaglie del convento di San Pietro m.) e la via Riberia (dove si apriva la porta di Valle). La contrada di Costa, che passa in mezzo, non aveva sbocco dalle mura, fin quando, due secoli fa la cinta muraria andò in pensione e fu demolita (eccetto brevi tratti). Era stata edificata alla metà del sec. XIV, al tempo in cui i Visconti costruivano il Maschio del Castello e la Strada coperta.  Cent’anni dopo i terraggi erano ormai cadenti, e dovendosi provvedere in qualche modo alla grave spesa, venne in mente ad un membro del Consiglio comunale di scomodare nientemeno che il vecchio patrono, Sant’Ambrogio. E il buon Vescovo rispose all’appello e andò in sogno allo zelante amministratore invitando alla ricostruzione delle mura. Volle dare anche un segno, così da colorare la paterna sollecitazione con un prodigio: i lavori andavano cominciati laddove si fosse trovata una porca rossa rovistare col grugno da qualche parte. E così, alcuni giorni dopo (e non prima, ne siamo convinti...), il Consigliere, passando per queste strade, notò che la scrofa del mugnaio del molino detto allora inferiore colorare il suo mantello della polvere rossa dei mattoni sfatti delle mura in rovina presso le quali passava le giornate col suo seguiti di porcellini. Il prodigio fu riconosciuto da tutto il popolo e le mura si cominciarono a riedificare partendo dalla torre di spigolo della cinta, che andò a trovarsi sopra il mulino, come ricordava una lapide posta sul muro. I Vigevanesi vollero fare ancora di più, e immortalarono la porca rossa in una statua di terracotta posta sotto il portico del vecchio palazzo di giustizia comunale, demolito nel 1492 per far posto ai portici della nuova Piazza. Il prodigio era avvenuto il 20 agosto 1452[1].

Gli intanto passarono, come l’acqua che azionava il mulino reso celebre dalla porca di Sant’Ambrogio (tirato in mezzo con molta confidenza), ma tutto rimase presso a poco tale e quale. Solo questo cambiò destinazione, e fu adibito a segheria, da cui il nome popolare di resega, sempre azionata dal salto delle acque della roggia Vecchia che lambiscono il vecchio fabbricato ancora oggi, e fanno sentire il loro scroscio (traffico automobilistico permettendo) a chi passi per la via.

Nei primi decenni del sec. XVII sopra il muro d’un qualche edificio rustico, una mano semplice ma efficace dipinse l’affresco del SS. Crocefisso tra San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena ora venerato sopra l’altare della chiesetta del Cristo. L’incrocio su cui si affacciava l’immagine conduceva a quel tempo a varie chiesa, alcune delle quali conservate ai giorni nostri. L’attuale via dei Mulini partiva dalla Rocca Nuova, detta anche di San Rocco, dal titolare della chiesa eretta forse al tempo della peste del 1524 dove sorse nel 1922 il santuario della Madonna di Pompei. Fu sede di Confraternita[2]. Quasi davanti, negli anni di cui stiamo discorrendo, sulle rovine della Rocca Nuova, fatta saltare nel 1646 dopo un doppio assedio, si stava costruendo la chiesa del monastero di Santa Chiara. Le clarisse inaugurarono la loro chiesa nel 1670, per opera dell’intrepida fondatrice ven. Giovanna dè Previde Eustachio[3] .

L’odierna via Rossini era detta nei tempi andati del dosso Baraglia per via della salita sulla costa, e proseguiva, accanto al mulino, verso la chiesa del Carmine costruita davanti alla porta di Valle dopo essere stata fatta atterrare da Ludovico il Moro nel 1498 per far posto a nuove fortificazioni. Era allora dedicata a Santa Margherita; si cominciò a chiamarla  col titolo mariano dopo che nel 1602 s’ebbe insediata la Confraternita del Carmine che la riedificò e nel 1661 innalzò il campanile, che è il più alto della città (fu elevato nel 1782)[4]. Il sobborgo nato attorno alla chiesa, abitato dai massè confinava col ponte del Naviglio detto della giacchetta.

L’ultima strada dell’incrocio era costeggiata dalla roggia vecchia (coperta cinquant’anni fa) e si è sempre chiamata di San Giacomo, dall’antica cappelletta che vi sorgeva[5], ricordo dei romei che passavano per Vigevano, e sostavano sotto il portichetto, ora pericolante, dell’antichissima chiesetta di Santa Maria intus vineas, che sorge poco avanti, oltre la ferrovia. Vi sostò anche un Papa (l’unico passato da Vigevano), Martino V, in ritorno dal Concilio di Costanza, nel lontano 1418[6]. La chiesa di San Giacomo, adibita a cimitero degli appestati nel 1524, era all’incrocio con la strada che porta alla chiesa di Santa Maria degli Angeli[7], fondata nella seconda metà del quattrocento dal Duca Galeazzo M. Sforza, rimasto illeso da quelle parti, da una brutta caduta a cavallo. Fu ricostruita nel 1583 dalla Confraternita dell’Annunciazione di Maria SS., che l’officiava e l’abbellì a metà settecento con la cupola del presbiterio simile a quella del Cristo.


[1]M. Bianchi, Tra biscioni, aquile e bacille, spigolature di metà quattrocento, in Viglevanum, XIII (2003).

[2] A Vigevano ci furono ben tre chiese intitolate a San Rocco. La più antica, questa, era officiata dall’omonima Confraternita fin dal 1576; in quell’anno si iniziò una seconda chiesa, entro le mura, a lato della facciata di San Pietro Martire. Le prime due furono demolite nel 1645 per l’assedio della vicina Rocca Nuova. Dopo il 1646 i Confratelli ne costruirono una terza, all’angolo tra via del Popolo e corso della Repubblica. Fu soppressa nel 1801 e demolita; la Confraternita si trasferì in San Pietro Martire e nel 1815 nella chiesetta di San Giorgio: dopo poco si sciolse. C. Silva, Chiese scomparse di Vigevano, in Viglevanum, XIV (2004).

[3] La vita di questa battagliera suora, protagonista del seicento vigevanese è raccontata in P. Bellazzi, La buona vecchiarella, Vigevano, 1991, che racconta le vicende del convento fino alla soppressione del 1801.

[4] La Confraternita non esiste più, ma la chiesa è ancor oggi frequentata specialmente per la festa rionale della Madonna del Carmine, la seconda domenica di luglio, con manifestazioni religiose e folcroristiche (r’ania cilesta).

[5] Era antichissima, e Simone del Pozzo (nel sec. XVI) non ne trovò l’origine. Fu restaurata nel sec. XVIII e ridotta a casello del dazio a fine secolo. Verso il 1940, chiudendo la roggia che fiancheggiava la strada, fu atterrata.

[6] E’ uno degli edifici più antichi della città, a pianta basilicale con abside di fattura romanica (si notano brani di muratura a spina di pesce dei sec. X-XI); presenta un singolare porticato su pilastri di derivazione classica, e all’interno, brani di affreschi del sec. XV sotto la decorazione seicentesca. Si trova oggi in deplorevoli condizioni di abbandono e rovina.

[7] La chiesa, riaperta dopo le soppressioni napoleoniche dai Confratelli, è notevole per la cupola decorata a ricchi stucchi a forte rilievo e dipinti ad olio. Nel coro sono notevoli tele di ambito lombardo dei sec. XVII – XVIII. Restaurata dal prev. Masperi nei primi anni settanta del novecento, dopo lungo abbandono, è di patronato del Parroco di San Pietro martire. Nell’annessa casa del Cappellano. ha sede dal 2005 il Centro di aiuto alla vita.


II – L’AFFRESCO

L’origine della chiesa del Cristo si deve all’immagine del Cristo Crocefisso tra due Santi che si venera oggi sopra l’altare. E’ di dimensioni modeste (alta circa un metro e larga la metà), centinata ad arco (almeno nella configurazione odierna), stesa con la tecnica dell’affresco su un muro di mattoni e sassi di fiume ricoperto di intonaco lisciato approssimativamente e con qualche rappezzo. Siccome è da presumere che l’affresco sia rimasto sempre al suo posto, si deve pensare che fu dipinto sul muro d’un edificio rustico un pò in alto, come si usava per le immagini sacre lungo la strada. Al centro è raffigurato Cristo Crocefisso su un’alta croce col mosso cartiglio sovrastante, che si poggia sul terreno con cunei e un teschio ai piedi. Il Signore, con la testa nimbata e reclinata, è raffigurato in suggestiva espressione: il suo prezioso sangue è sparso con abbondanza dalle piaghe. Ai piedi, lateralmente, in ad orazione è raffigurato a sinistra San Francesco d’Assisi, in ginocchio, con l’aureola e i segni visibili delle stimmate. Dall’altra parte, in un simile posa, Santa Caterina da Siena. Ci soffermeremo nel capitolo successivo su questi due Santi e la scelta di raffigurarli appaiati.

Lo sfondo, reso con colori scuri e soffusi, reca la veduta di una città murata con torri, una cupola e per qualcuno, la sagoma della nostra torre del Bramante. Il cielo, dalle tinte sfumate, mostra, tra le nuvole, la tipica iconografia del sole e della luna.

L’ignoto artista ha raggiunto un livello espressivo e una resa pittorica non comuni. La pittura, protetta da vetro fin dal sec. XIX, presenta colori vividi e uniformi, nonostante la pellicola pittorica si adatti ad una non uniforme stesura dell’intonaco e a maldestri rappezzi (specie in basso). Non si scorgono tracce di ridipinture, ritocchi e nemmeno restauri; recentemente si è provveduta ad una leggera ripulitura della superficie dalla polvere. Tuttavia è impossibile non essere d’accordo col giudizio dell’allora Parroco di San Cristoforo don Carlo Volpi, che scriveva nel 1819: pare di fresco dipinta[1].

E pare così anche a noi, a due secoli di distanza.

Questa immagine dovette, quattro secoli fa, toccare la pietà religiosa di chi si trovava a passare di là, tra ortaglie e vigne a ridosso delle mura della città. La devozione crebbe, e come vedremo, si costruì prima un’edicola votiva, poi una chiesetta, e poi la chiesa attuale, nel giro di un secolo. La devozione popolare non è mai venuta meno nel corso del tempo: ancora oggi le pareti dell’edificio sacro mostrano numerosi quadretti ex voto, cuoricini d’argento o latta dipinta, i più antichi dei quali risalenti alla metà dell’ottocento. Nei decenni passati erano molto più numerosi e ricoprivano buona parte dei muri, vicino all’altare e sulle colonne. Accanto a quelli superstiti ne sono esposti diversi aggiuntisi negli ultimi anni, segno di una devozione viva, dopo vari anni di oblio.


[1] Relazione dello stato della Parrocchia di San Cristoforo in San Pietro martire, manoscritto dell’ASPSPMV.


III -  DOMENICANI E FRANCESCANI.

A questi due Ordini religiosi mendicanti, molto affini, appartengono i due Santi raffigurati ai lati del Crocefisso nel nostro affresco: la scelta non deve stupire, entrambi condivisero alte vette di misticismo, trovando nella passione di Cristo la fonte e il culmine. Ebbero inoltre il privilegio di partecipare alla Croce di Cristo attraverso le stimmate. Singolare è piuttosto il loro accostamento: le due scuole di santità, francescana e domenicana, pur analoghe, rimasero nei secoli ben distinte, quasi rivali (sempre benevolmente, s’intende).

San Francesco d’Assisi (1181 - 1226) raccolse alcuni giovani a condividere il suo ideale di povertà dando vita all’ordine religioso mendicante dei frati minori, da lui chiamati francescani. Negli stessi anni San Domenico di Guzman (1170 - 1221) fondava un ordine religioso analogo detto dei predicatori per la particolare forma di apostolato, più noti come domenicani. Al Terz’Ordine femminile appartenne Santa Caterina da Siena (1347 - 1380) che fu protagonista nella travagliata vita della Chiesa e del Papato del sec. XIV, colma di grazie dello Spirito Santo.

Entrambi gli Ordini, nelle varie famiglie e nelle branche maschili e femminili, furono presenti a Vigevano, fino alle soppressioni napoleoniche di inizio ottocento. Ora restano soltanto i Cappuccini, tornati nel 1895 operando con gradimento dei concittadini nel convento della Sacra Famiglia, a non molta distanza dalla chiesa del Cristo[1].

I primi religiosi ad aprire una casa religiosa con chiesa propria a Vigevano furono i frati francescani minori della famiglia dei conventuali, che diedero inizio alla chiesa e al convento di San Francesco nel 1378, ad opera del vigevanese fra Giovanni Ferrari[2]. Al primitivo chiesuolo si sostituì alla metà del sec. XV la bella chiesa attuale, ora rifatta secondo il gusto neogotico dai radicali restauri ottocenteschi. Il convento fu soppresso nel 1801 per le leggi napoleoniche; la chiesa dopo essere stata adibita a deposito di sale della vicina dogana (alloggiata nel convento), fu riaperta al culto e divenne sede della parrocchia di San Dionigi nel 1852. Onorò questo convento il Beato Anselmo degli Anselmi, vigevanese (morto alla fine del sec. XV), il cui corpo si venera all’altare di Santa Margherita da Cortona. Fu più volta ospite di questo cenobio San Bernardino da Siena tra il 1431 e il 1442; una tradizione vuole che abbia eretta il bel campanile di San Francesco.

Legata a questo Santo, propugnatore dell’osservanza francescana è la fondazione, resa definitiva nel 1475 della chiesa di Santa Maria delle Grazie e del convento dei Francescani osservanti, più noti come zoccolanti. Il complesso, che sorgeva in fondo a corso Novara, fu soppresso nel 1810 e in gran parte demolito; resta un chiostro, adibito ad abitazioni. Visse qui il Beato Cristoforo Macassolio (morto nel 1485), le cui reliquie si traslarono in Duomo nel 1811, ove si venerano all’altare di Sant’Elisabetta[3].

La terza famiglia francescana, quella dei Cappuccini[4], si insediò nel 1539 in città, inizialmente presso la chiesetta della Madonna di Loreto, che esiste ancora oggi, in via Santa Casa. Nel 1609 i Cappuccini si trasferirono in un più grande convento, intitolata a Santa Maria del Crocefisso, a Battù, soppresso nel 1805. Resta il coro della grande chiesa, visibile in via dei Cappuccini.

Nel Convento della Santa Casa si trasferì nel 1609 un altro ramo francescano, quello dei Terziari, che vi rimasero fino al 1653.

A Vigevano erano presenti dunque tutti i rami maschili: abbiamo già accennato al ramo femminile, le suore clarisse, che ebbero un convento sugli spalti della Rocca Nuova, di cui resta il chiostro, e la chiesa intitolata a Santa Chiara, allo sbocco del corso della Repubblica, tra il 1655 e il 1810. Già prima si era formata una comunità domestica di clarisse nel 1458 presso la chiesa di San Dionigi (presto confluite nel monastero di Santa Chiara ad Abbiategrasso), e in seguito, nel 1641 in una casa del vicolo del Seminario, che diede vita poco dopo al monastero vigevanese.

Abbiamo lasciato per ultimi i Domenicani, non certo perchè ritenuti tali in ordine di prestigio. Tutt’altro.  La chiesa e il convento di San Pietro Martire[5], dei frati domenicani dell’osservanza furono fondati nel 1445 a seguito di un voto pubblico dei Vigevanesi a quel Santo. Il quando, il come e il perchè di quel voto furono oggetto di infinite questioni. I frati certamente erano conosciuti a Vigevano già prima del 1445, forse già dal 1359, almeno per periodiche predicazioni. Il convento fu illustre per la fama di santità e il prestigio dei suoi frati: tra questi uno divenne papa: il grande San Pio V. Ma il più noto, e il più caro a noi tutti vigevanesi è il Beato Matteo Carreri [6](1420-1470), proclamato protettore di Vigevano nel 1518. Il corpo è venerato con grande fervore ancora oggi, e non solo per le feste patronali di ottobre, nella cripta, o scurolo sotto l’altare maggiore della chiesa di San Pietro Martire, divenuta parrocchiale di San Cristoforo nel 1806, essendo stato il convento soppresso l’anno prima e adibito a sede del Tribunale, come ai giorni nostri.

I Domenicani erano presenti inoltre alla Sforzesca, avendo avuto in dono la possessione da Ludovico il Moro perchè suffragassero l’anima sua e della moglie. Presso la chiesa (rifatta nell’ottocento, eccetto il campanile) avevano un piccolo convento, dipendente da quello di Santa Maria delle Grazie di Milano. I beni furono incamerati nel 1798 e venduti.

Anche il ramo femminile[7], quello di Santa Caterina da Siena, fu presente in città fin dal 1445. Le Terziarie abitarono prima in una casa di vicolo degli Anselmi, poi, dal 1525 nel grande convento dell’Assunta, in via Merula, soppresso nel 1805, di cui restano i due chiostri. La chiesa divenne teatro, cinema, infine...appartamenti e una banca. Tra le suore, emerse per fama di santità la Beata Caterina Naj Savini[8], da Gambolò, penitente del Beato Matteo, morta nel 1516. Le reliquie si venerano nella cappella di San Pio V della chiesa di San Pietro Martire.

La presenza femminile domenicana, dopo molti decenni, ritornò in città con la venuta delle suore di Santa Caterina da Siena del Second’Ordine (le nostre domenicane), nel 1881 su invito del vescovo mons. De Gaudenzi, in via Griona. Nel 1912 si trasferirono nel convento già delle Sacramentine (eretto nel 1876 in fondo al vicolo Deomini) alle spalle dei chiostri dell’Assunta. Ancora oggi operano nell’istituto scolastico San Giuseppe[9].

Due scuole di santità così radicate nella nostra città non mancarono mai di spronare religiosi e laici nella santa emulazione, sempre pacifica, eccetto qualche ceffone volato in Duomo l’8 dicembre dell’anno 1537[10].


[1] Dopo le soppressioni napoleoniche tentarono un ritorno a Vigevano, officiando la chiesa di San Bernardo tra il 1872 e il 1879 abitando una casa vicina. Solo nel 1895, coll’acquisto della villa e del podere di Mombello, trovarono una sede adeguata. La bella chiesa, dedicata alla Sacra Famiglia, con altari in legno settecenteschi, secondo lo stile tradizionale dei Cappuccini, fu eretta nel 1927 e restaurata dopo un incendio nel 1941.  L’opera dei Frati (come sono noti a tutti) è assai apprezzata dai Vigevanesi.

[2] P. Bellazzi, La chiesa di San Francesco a Vigevano, Vigevano, 1964 e Notizie religiosi vigevanesi (996 – 1996), Vigevano, 1996.

[3] P. Bellazzi, Il Beato Cristoforo Macassolio, Vigevano, 1974.

[4] P. Crescenzo da Cartosio, I frati minori cappuccini a Vigevano, Vigevano, 1997.

[5] C. Silva, La chiesa di San Pietro martire, le lontane origini tra ipotesi storiche e documenti d’archivio, in Viglevanum, XIII (2003).

[6] La prima Vita del Beato, scritta da un contemporaneo, è stata pubblicata da mons. Cerri nel 2002; quell’anno è stato celebrato un convegno storico – scientifico dal titolo I passi dell’uomo, le orme del Santo, pubblicato dalla Società Storica Vigevanese nel 2003.

[7] P. Bellazzi, op. cit. (1996).

[8] Ne scrisse la biografia Padre Pianzola nel lontano 1918.

[9] M. Bianchi, Le suore domenicane e l’educandato San Giuseppe, 1881 – 2001, in Viglevanum XII (2002).

[10] P. Bellazzi, Acta et agenda viglevanensis, Vigevano, 1990.


IV – IL GRANDE CARAMUEL

Abbiamo lasciato la nostra immagine sul murello. Tanto per dare qualche riferimento cronologico, noteremo che la carta topografica della città in vista dell’assedio francese della Rocca Nuova del 1646, peraltro puntuale, non segna alcuna cappella od edicola: se c’era, era solo un dipinto su un muro, e non doveva comunque costituire un ostacolo o un possibile avamposto militare come le chiese e i casolari vicini. Ma tant’è che la devozione popolare crebbe a tal punto che si decise di erigere una cappelletta di fronte ad essa, e si provvide a chiedere al Vescovo la debita autorizzazione. Sedeva sulla cattedra vescovile della nostra città il grande mons. Caramuel, che resse la piccola diocesi di Vigevano tra il 1673 e il 1680, noto ai più come studioso di quasi tutte le discipline dello scibile umano e artefice della facciata del Duomo e della sistemazione urbanistica della sua piazza. Ebbene proprio lui, come racconta il Gianolio[1], diede licenza, il 5 agosto 1680, di costruire una chiesa intitolata al SS. Crocefisso fuori porta di Valle.


[1] M. Gianolio, De Viglevano et omnibus episcopis, Torino, 1793 (Novara, 1844).


V – LA CHIESA VECCHIA

Si fece carico di provvedere a raccogliere le elemosine e dirigere la costruzione di una chiesa, la primitiva, l’allora parroco di San Cristoforo, nel cui territorio si trovava l’immagine, don Andrea Giacomo Araldi, che resse la cura d’anime dal 14 dicembre 1659 all’11 dicembre 1696. L’edificio di culto divenne così di proprietà del parroco pro-tempore, esercitandone l’amministrazione e il diritto di Patronato, come fa ancora oggi. Essendo oratorio di proprietà di un privato si salvò dalle soppressioni napoleoniche, e rimase aperto al culto anche in quegli anni burrascosi, a differenza delle chiese di conventi e confraternite, come vedremo a suo luogo. Leggiamo infatti dalle pagine di un manoscritto inedito del can. Fassina, rettore della chiesa di Sant’Ignazio, che scriveva nel 1729, tra le chiese e gli oratori costruiti dopo il 1669, quello del SS. Crocefisso della Resega, dall’elemosina dei fedeli e dall’impegno del parroco di San Cristoforo D. Giacomo Andrea Araldi completato nel 1689[1].

Di questo edificio, forse un piccolo oratorio campestre con altare per celebrarvi la Messa, non sappiamo nulla, se non che già esisteva nel 1687 nelle strutture murarie, comparendo in una pianta topografica della città di quell’anno.


 V – LA CHIESA NUOVA

 La primitiva chiesa doveva essere ben poca cosa, e non solo in termini di superficie occupata, non soddisfacendo alla crescente pietà religiosa dei devoti, che dopo pochi decenni intrapresero la costruzione di una nuova chiesa, ancora una volta con le offerte, i materiali, e le prestazioni d’opera dei fedeli stessi, come dimostrano i rilievi compiuti sulle murature e le coperture[2]. A incanalare il fervore in un’opera non piccola, toccò ad un successore di don Araldi, don Bartolomeo Prato Previde, parroco di San Cristoforo dal 17 marzo 1748 al 1 aprile 1763. I lavori, come annota il citato don Volpi[3], cominciarono nell’anno 1749 e dovettero concludersi, almeno nelle parti essenziali, due anni dopo. Nel retro del portone d’ingresso alla chiesa, sulle ante superiori, è infatti incisa la data 1751, che si riferisce alla costruzione del serramento che andava a chiudere un edificio almeno in parte completato.

Si volle costruire non un semplice luogo di culto campestre, come molti altri, ma un santuario vero e proprio, che, pur nelle limitate proporzioni, presentasse un’articolazione architettonica e decorativa tutt’altro che trascurabile. L’edificio costruito è di piccole dimensioni, a pianta centrale a croce greca da cui si dilata al centro un ottagono coi bracci dell’ingresso e dell’altare dilatati. L’impianto assume grandiosità ed eleganza nell’articolazione delle otto colonne binate su alta base che sostengono nei quattro lati trasversali la calotta della cupola, piuttosto elevata, che tramite un breve tamburo, nascosto dal cornicione interno, imposta la calotta sommitale. A rendere prezioso l’interno sono gli splendidi stucchi a forte rilievo che ornano i capitelli delle colonne e i sottarchi di presbiterio e ingresso e soprattutto invadono con esuberante eleganza barocca tutta la parte superiore della chiesa. Chi eseguì il disegno e chi eseguì l’opera doveva provenire da un livello artistico non comune (frequente in Piemonte e Lombardia tra i sec. XVII e XVIII), che ha lasciato esempi analoghi in alcune chiese della Lomellina e soprattutto nella vicina chiesa della Confraternita della Madonna degli Angeli, di cui venne costruita, proprio in quegli anni, l’elegante cupola che sovrasta il presbiterio, decorata di dipinti su tela e stucchi, inequivocabilmente affini ai nostri[4].

La decorazione a stucco rimase confinata alla parte superiore della chiesa: attorno all’ancona col dipinto venerato non si conservano strutture architettoniche o anche solo decorative analoghe alla cupola. L’ancona dipinta di gusto neoclassico risale alla metà del sec. XIX; l’altare attuale, marmoreo, come vedremo, sostituisce molto probabilmente quello originario, forse  in muratura con decorazioni in stucco.

La chiesa era originariamente completamente isolata, e decorata esternamente da lesene e paraste visibili per tutto il fianco laterale, verso via dei mulini; la stessa decorazione in muratura, intonacata, riprende nel fianco opposto, successivamente nascosta dall’addossamento di sagrestia, campanile e casa annessa. E’ ben visibile dalla scala interna che sale al campanile e da un locale di disimpegno sul braccio opposto. Se la finitura esterna è accurata fino al tetto dei bracci dell’ottagono e della facciata, fu lasciata rustica tutta la parte superiore: ancor oggi il piccolo tamburo reca a vista la muratura (si noti l’incoerenza del materiale: mattoni di varia consistenza e dimensioni con l’inserzioni di pietre e sassi di fiume) e la cupola, intradossata anche nel progetto iniziale (secondo la tradizione lombarda), è coperta da un tetto a otto falde retto da pilastrini (non furono eseguiti i muri di continuazione). Accurata è l’articolazione della facciata, verticalmente dilatata, con elaborati capitelli sui pilastri.

[1] Manoscritto inedito dell’Archivio Capitolare di Vigevano.

[2]  Le murature portanti sono in mattoni di varia provenienza e consistenza, assemblati con sassi di fiume; gli altri muri, per lo più a sacco, sono composti anche da mattoni cotti al sole impastati con paglia e legname.

[3] Scrive: detta chiesa è stata fabbricata nell’anno 1749, preesistendovi anteriormente l’immagine del detto Crocefisso sopra di un muretto, detto volgarmente pilastro, e sembra di fresco dipinto. (op. cit.). Anche P. Pianzola, Vigevano memorie religiose, Vigevano, 1930. Sembrano ignorare il primitivo edificio completato nel 1689.

[4] Probabilmente furono eseguiti dalla stessa mano e negli stessi anni. Esempi analoghi sono presenti in Lomellina: a Mede nella chiesa parrocchiale nella cappella del Rosario (1629) e in quella dell’Immacolata (inizi sec. XVIII), mal restaurate. A Sant’Eusebio a Gambolò le cappelle di San Giuseppe e della Natività (prima metà sec. XVIII).


VI – SVILUPPI SUCCESSIVI

Abbiamo visto come la nostra chiesa fosse nata nella metà del sec. XVIII come oratorio campestre isolato; non passò molto tempo che si decise di affiancare al luogo di culto locali di servizio, come la sagrestia e il campanile. Si aggiunse inoltre un caseggiato addossato alla costruzione per alloggiarvi il custode eremita di cui parleremo.

Il primo edificio aggiunto fu la sagrestia, concepita come un vano architettonicamente autonomo, collegato da una porta al transetto sinistro della chiesa, di proporzioni dignitose e voltato. La muratura è piuttosto regolare, diversamente da quella della chiesa ed è slegata dai muri adiacenti. Se successiva è l’inserzione di questo locale, non dovettero passare molti anni, se fa fede la data 1754 incisa nell’anta del mobilio ancora conservato, senz’altro originale[1].Nella visita pastorale del Vescovo Mons. Scarampi, del 1757, è nominata come già esistente la sagrestia, con quanto necessario per la celebrazione della S. Messa[2].

A quest’epoca, inoltre, risalgono le suppellettili d’altare di cui è dotata la chiesa.

Analogamente furono aggiunti, nel fronte, due locali, uno sopra l’altro, costruiti con approssimazione e ampliati in lunghezza in un secondo tempo. Anche sopra la sagrestia fu eretto un locale, con livello di soglia elevato però di due gradini. Le tre stanze, coperte da solai in legno, furono collegate da un breve corridoio ai due piani, che immette nel vano scala, ricavato nell’intercapedine del lato obliquo dell’ottagono alla chiesa. Per sfruttare lo scarso spazio la scala fu eretta in mattoni con gradini irregolarmente disposti a chiocciola, sostenuta da un voltone in muratura. Al di sopra di questo vano, in un secondo tempo (a giudicare dalla muratura originaria superstite), forse nel 1806 per ospitare la campana, come vedremo,  fu impostato il breve campaniletto, a pianta quadrata con grande cella campanaria. Esso è stato integralmente ricostruito verso il 1950 a causa del cedimento dell’arcata e delle travi di appoggio; fu allora impostato su una putrella in cemento armato, riprendendo le linee antiche, con cornicione aggettante in cotto e il tettuccio a quattro falde con piloncino sommitale reggente la croce. Non furono però eseguiti gli archetti a tutto sesto delle finestre della cella, sostituiti da putrelle piatte in forati; il castello della campana, in legno, fu ricostruito con travicelli in ferro.

Nel giro di qualche decennio, dunque, la destinazione e il ruolo della chiesa erano cambiati, divenendo luogo di culto non più saltuario, con officiatura regolare (pur senza legati) e quanto necessario per la celebrazione della Messa. L’ultimo cappellano festivo fu don Matteo Bellazzi, morto nel 1919.

Fino a trent’anni fa si celebrava Messa regolarmente ogni venerdì, specie in quaresima, da un Curato di San Pietro martire per devozione degli abitanti del rione.

[1] Le ante, rubate durante gli anni di incuria, recavano l’incisione: GIO. NATALE 1754. La convenzionale sagomatura delle formelle ricorda i coevi stalli del coro di San Pietro Martire e di San Francesco.

[2] Dagli Atti della Visita di mons. Scarampi (12 luglio 1757) conservanti nell’ ASDV, leggiamo: Accessit ad Ecclesiam S.mi Crucifixi, ubi visitavit altare, sacristiam, vasa sacra, et sacras suppellectilis, que omnia inventi ad formam 


VII – UN ALTARE, UNA CAMPANA E QUALCHE INDULGENZA

Siamo giunti ormai agli inizi del sec. XIX, epoca di gravi turbamenti e sconvolgimenti, anche in campo ecclesiastico. Tra il 1798 e il 1810 nella sola città di Vigevano, a causa delle leggi soppressive, vennero chiuse e vendute ben 9 chiese con annesso convento o monastero (in seguito furono riaperte le sole chiese di San Francesco e San Pietro M.), e oltre 20 chiese di Confraternite e Oratori. Poche di esse rimasero aperte perchè dichiarate sussidiarie di Parrocchie (per San Cristoforo: San Pietro martire e il Carmine) o perchè salvate dai Confratelli e ripristinate passata la bufera napoleonica (la Madonna degli Angeli)[1]. La chiesa del Cristo non rientrò tra i casi previsti dai decreti di soppressione, perchè ritenuto Oratorio privato di proprietà e patronato del Parroco pro-tempore di San Cristoforo, che ne aveva curato la edificazione, e che tuttora ne detiene il patronato e l’amministrazione.

Ai quei tempi furono numerosissime le opere d’arte, gli oggetti, le suppellettili dismesse dalle chiese chiuse e spogliate d’ogni bene, originando la tragica distruzione e dispersione d’un patrimonio artistico valutabile in poco meno di quello rimasto. Nacque quindi un mercato di oggetti, ma anche di manufatti più impegnativi, come balaustrate ed anche altari marmorei.  Uno di questi, proveniente da chi sa quale chiesa profanata della nostra città, dovette capitare al Cristo ed essere rimontato.  Quello che vediamo oggi è una pregevole composizione di gusto barocco in marmi policromi elegantemente assortiti e sagomati, databile ai primi decenni del sec. XVIII. Sono evidenti, specie nell’articolato paliotto, i segni dello smontaggio e della ricomposizione accurata dei tasselli della struttura marmorea. Si noti inoltre l’evidente sproporzione dell’altare rispetto al vano in cui è inserito (penetrando le lesene dei muri): l’alzata per i candelieri, inoltre, sembra essere stata ristretta e accostata al tabernacolo marmoreo, piuttosto sovradimensionato rispetto all’insieme. Inoltre si noti che la parte posteriore, addossata alla parete, presente parti di specchiatura marmorea, che avevano un senso quando l’altare, dotato di una seconda alzata e diversamente assemblato, doveva trovarsi tra il presbiterio e il coro di una chiesa, al centro del vano.  Un’ulteriore dimostrazione è stata la scoperta, durante il rinnovo della cassa del tabernacolo, nel giugno 2003, di uno sportello in legno decorato in stucco che chiudeva originariamente la custodia del SS. Sacramento. Lo sportellino, ora custodito in sagrestia, reca in facciata un’elaborata decorazione a stucco in forte rilievo dorata, raffigurante al centro, su una nuvoletta l’usuale raffigurazione dell’ Agnus Dei. Attorno sono eleganti decorazioni a stucco verniciate in argento (in parte cadute), e sotto, le parole della consacrazione della Messa secondo il Canon Missae[2]. Il disegno ricorda molto lo sportellino dell’altare della cappella della Madonna del Rosario nella chiesa di San Pietro martire (quello però in lamina di rame sbalzato e cesellato). Quando l’altare fu trasferito al Cristo non era più necessario conservare nel tabernacolo il SS. Sacramento, ma piuttosto la reliquia della Santa Croce in apposito reliquiario ad ostensorietto, che ancor oggi si espone all’altare nei giorni della festa. Si decise allora di applicare sopra lo sportello una nuova facciata, questa volta in lamina di ottone sbalzata e cesellata, realizzata nel primo decennio dell’ottocento e raffigurante la Santa Croce contornata da teste d’angelo e da una raggiera.

Un mese prima di scoprire lo sportello originario del tabernacolo, nel maggio 2003, calando la campana dal campanile per l’improrogabile sua revisione e riparazione, si scoprì essere molto più antica della chiesa e del campanile. Anzi è la più antica campana funzionante della città. Si scoprì in quell’occasione la dicitura a rilievo: SS. TRINITAS ET VIRGO MARIA TUEANTUR – 1690. Se, come abbiamo detto, il campanile fu eretto nel primo decennio dell’ottocento, possiamo supporre che la campana, come l’altare, provenga anch’essa da qualche chiesa soppressa in quegli anni. Con qualche ragione possiamo affermare che provenga dall’antica chiesa parrocchiale di San Cristoforo[3], che sorgeva all’angolo tra il vicolo omonimo e la via Riberia. Era stata fondata nel 1524 al tempo d’una grave pestilenza per cura di un gruppo di uomini della contrada di Valle, che s’unirono in una Confraternita per l’assistenza materiale e spirituale dei loro concittadini, intitolata a quel Santo con l’abito nero in ricordo di quei lutti. Nel 1584 si intitolò alla SS. Trinità (infatti la campana ha questo titolo) e mutò l’abito in rosso. Nel 1801, soppressa la Confraternita la chiesa fu lasciata aperta al culto perchè sede di cura d’anime, ma nell’agosto del 1806, il parroco don Clerici ottenne dal Demanio di trasferire la parrocchia nella chiesa di San Pietro martire (i frati erano stati cacciati l’anno prima). La vecchia parrocchiale fu quindi soppressa e venduta, insieme ad altari e quant’altro per £ 2.500 (somma ridicola anche a quel tempo), come ricorda il cronista contemporaneo Ludovico Cotta Morandini[4]. Alcuni quadri e la suppellettile si trasferirono nella nuova parrocchiale.

Sul campanile di questa chiesa stavano due campane, risparmiate dalla requisizione sabauda del 1795[5]. Calate nel 1806, dovendosi atterrare la torre, non furono vendute, ma issate sul campanile di San Pietro martire, che di campane ne avevano lasciata una sola. Nel memoriale citato di don Volpi, leggiamo che nel 1819 vi erano due campane (una lasciata nel 1795 e l’altra di San Cristoforo), e altra piccola (anch’essa di San Cristoforo) fu trasportata ad altra chiesa, nel circondario della Parrocchia[6]. Dunque questa campana, calata dall’antica parrocchiale di San Cristoforo fu tra il 1806 e il 1819 portata al Cristo e issata sul campaniletto, eretto in quegli anni.

Poco dopo, si aggiunse anche la concessione di una serie di importanti indulgenze, come leggiamo nel prezioso memoriale di don Volpi: nella chiesa del SS. Crocefisso, detta volgarmente “della Resega” situata nei sobborghi della parrocchia, dietro istanza fatta dall’attuale Parroco, SS. Pio VII in data 15 luglio 1818 si è degnato di concedere le seguenti indulgenze:

1-     indulgenza plenaria nella festa dell’Invenzione della Santa Croce, nella terza domenica di settembre, e nel venerdì dopo la terza domenica di quaresima.

2-     altra indulgenza concessa a chiunque visiterà la detta chiesa nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce e nei sette giorni susseguenti una sol volta l’anno.

3-     come pure indulgenza in tutti gli altri venerdì di quaresima soltanto per sette anni, ed altrettante quarantene.

4-     così pure tutti gli altri venerdì dell’anno concede indulgenza di duecento giorni.

Tutte le suddette indulgenze sono accordate per un settennio, e riconosciute dall’Ordinario in data 14 settembre 1818[7].

In sagrestia si conserva ancora il cartiglio di legno baroccamente sagomato che si appendeva in chiesa nei giorni disponibili per acquistare le indulgenze[8]. Se si chiese e si ottenne dalla Santa Sede la concessioni di indulgenze per più giorni l’anno, è evidente quanto passaggio di fedeli dovesse esserci in chiesa a quel tempo, specialmente in Quaresima e nelle due feste della Santa Croce: l’Invenzione (3 maggio) e l’Esaltazione (14 settembre).

[1] Le vicende delle chiese vigevanesi sotto la bufera napoleonica è accennata in C. Silva op. cit. (2004); P. Pianzola (op. cit.) descrive sommariamente le chiese scomparse. Esiste nell’ASDV (ma proveniente dalla Biblioteca del Seminario) un manoscritto inedito, apposto alla fine di una copia de La chiesa di Vigevano del Brambilla (1669), steso da Ludovico Cotta Morandini tra il 1801 e il 1815, contenente informazioni importanti e di prima mano.

[2] Era per comodità del sacerdote celebrante durante la consacrazione della Messa, che aveva  sotto gli occhi del parole del Canone. Per questo si posavano sulla mensa dell’altare le tre carte-glorie che recavano le parole del Canone (nella cartella centrale), le orazioni del lavat manus (a destra) e l’ultimo vangelo (a sinistra). La riforma del Messale di Paolo VI ha reso superflua questa suppellettile.

[3] C. Silva, op. cit. (2004). Pare che fosse stata disegnata dal celebre architetto e scultore Cristoforo Solari. C. Barbieri, l’associazione dell’Immacolata a Vigevano, Mortara – Vigevano, 1901.

[4] Op.cit.

[5] Servirono a far cannoni contro i francesi, ma essendo bottino del diavolo, non servirono ad arrestare gli invasori d’oltralpe, e diventammo terra d’occupazione straniera, fino alla caduta di Napoleone. L’elenco delle campane sottratte nel 1795 è riportato dal menzionato manoscritto del Cotta Morandini. P. Muggiati, quando la città rimase senza campane, in Viglevanum, VIII (1998).

[6] Op. cit.  Queste due campane furono fuse nel 1854 per il nuovo concerto, completato nel 1881.

[7] idem

[8] Erano frequenti in quegli anni le concessioni di Indulgenze particolari per chiese e oratori di Confraternite. Sempre nel 1818 alla chiesa di San Pietro martire si ottennero indulgenze per la pratica della Via Crucis e la Compagnia del SS. Rosario.


VII – L’EREMITA

Abbiamo parlato della costruzione di alcuni ambienti annessi alla sagrestia e abbiamo accennato a chi li occupava, il custode della chiesa, che abitava anche il caseggiato retrostante. Questo esiste ancora, pur trasformato, dopo essere stato espropriato e venduto dal demanio a causa delle sciagurate leggi soppressive anti - religiose messe in atto dal governo subalpino nel 1866[1]. Tra gli edifici e i terreni legittimamente donati e posseduti da istituzioni religiose, incamerati dal governo, ci fu quella parte della casa del custode, venduta, e ricostruita nel 1920 con la facciata su via Mulini decorata da artistici graffiti; la parte di casa sul cortile, un tempo collegata alla sagrestia, fu rifatta trent’anni fa.

La casa fu abitata nel sec. XX da un eremita, figura rimasta ancora ai nostri giorni nella memoria e nell’immaginazione dei nostri vecchi, ricordata nella relazione citata del 1819. Parlando dei romiti della parrocchia, don Volpi scrive: vi è vicino alla chiesa, ossia oratorio del SS. Crocefisso detto volgarmente della Resega il sacrestano ossia romito, il medesimo viene nominato dal Parroco, ed ha la sua abitazione annessa e connessa alla chiesa. La di lui condotta è del tutto onesta e morigerata, frequenta i sacramenti, il di lui abito quando va a questuare per la città colla bussola si è di colore ceruleo, ritrae poi il di lui vitto dalle giornaliere sue fatiche, occupandosi di lavorante di muratore[2]  Raccontano i vecchi che un eremita, forse quello del 1819, di cui non è stato trasmesso il nome, abbia preparato per sè un sepolcreto dentro la chiesa, sotto il pavimento davanti all’altare. Nel 1993, rimuovendo il pavimento della chiesa e scavando per risanare il suolo, si trovò appena sotto il gradino una tomba in mattoni accuratamente costruita, ma priva di traccia di sepoltura.

Queste figure con l’andare del tempo andarono scomparendo e al Cristo si provvide a stabilire una famiglia, che abitava la parte di casa rimasta dopo il 1866, coltivava ad orto il cortile e si occupava della chiesa; in caso di nevicate e di funzioni particolari, prestava la sua opera coadiuvando il sagrestano di San Pietro martire. Ultimamente, fino a quarant’anni fa, si occupò della chiesa la fam. Guffra, pare per circa un secolo.

[1] Tra i beni ecclesiastici incamerati dal Governo subalpino per le famigerate leggi del 1866, rientrò anche la casa annessa alla chiesa del Cristo, come risulta da un documento pervenuto all’archivio della chiesa del Cristo, redatto nel 1876 dall’Ufficio del Registro di Vigevano in cui si certifica l’ammontare della liquidazione dei beni immobili demaniati dieci anni prima in lire 936,22.

[2] (ivi). Queste figure solitarie di laici dediti alla vita religiosa (senza voti) erano frequenti un tempo come custodi delle chiese campestri. Se ne ricordano presenti fino al sec. XVIII a San Sebastiano (cimitero) e nelle scomparse San Martino (con casa eretta dal Comune nel 1511), San Michele, San Pietro alla cascina Rometta, San Vittore alla Sforzesca. P. Pianzola, op. cit.


VIII – I RESTAURI DEL 1901

Ancora una volta la storia del Cristo si incrocia con quella della chiesa di San Cristoforo, anzi della sua Confraternita, intitolata alla SS. Trinità, esule in San Pietro martire nel 1806 con le altre Confraternite della Parrocchia sotto il titolo del SS. Sacramento[1]. Passata la bufera napoleonica si ricostituì con gli usi antichi, e contribuì con efficacia alle opere parrocchiali: nel 1887 provvide al nuovo altare marmoreo della cappella della SS. Trinità nella chiesa di San Pietro martire con gli affreschi del Garberini alle pareti. Nel 1901 si sobbarcò l’onere di promuovere e curare i radicali restauri della chiesa del Cristo. Questa si trovava allora in grave stato di deperimento  a causa dell’umidità proveniente dal suolo (inconveniente  ancor oggi presente) e dalle infiltrazioni d’acqua piovana dal tetto, che avevano danneggiato gli stucchi della cupola. All’interno si procedette ad una ridipintura generale delle pareti e delle decorazioni che alterò pesantemente l’aspetto originario.

I muri, le colonne e i cornicioni furono dipinti ad imitazione del marmo secondo il gusto del tempo con tinte giallo-rosse e verdi nelle colonne e nel riquadro delle basi. L’ancona dipinta sopra l’altare fu ritoccata e appesantita con decorazioni in oro matto. Nel cornicione si scrisse: AVE MARIA GRATIA PLENA; gli stucchi della cupola furono dipinti a fondo giallo con decorazioni dipinte nelle cornici. I cartigli furono riscritti su fondo arancione. L’affresco sul colmo della cupola, evidentemente già lacunoso, fu coperto da uno scialbo rosso al cui centro fu dipinta la colomba dello Spirito Santo; nel riquadro centrale del sottarco dell’altare fu disegnato un ostensorio. Tutti questi elementi nell’ultimo restauro furono rimossi, anche per l’irreparabile degrado in cui versavano, eccetto il pregevole dipinto che orna la lunetta sopra l’altare, raffigurante tre angeli su nuvole, eseguito presumibilmente nel 1901. Non presenta nè data, nè firma, ma si può agevolmente attribuire ad un pittore della cerchia degli artisti vigevanesi che onorarono la nostra città a cavallo tra otto e novecento.

Dopo questo intervento, si segnala nel 1927 la sistemazione della casa del sagrestano, col ballatoio e la scala esterna in muratura (prima erano in legno). Nel 1950 si provvide a ricostruire il campaniletto e rappezzare gli intonaci esterni. Poco dopo furono rifatti in marmo rosso i due gradini dell’altare in chiesa e la predella in parquet.


 


[1]  Questa Confraternita fu la terza a Vigevano dopo San Dionigi (attestata nel 1323) e Santa Maria del Popolo (nata da una scissione nel 1516). Si aggiunsero fino alla metà del sec. XVIII altre otto con sede in proprie chiese (oggi restano quelle del SS. Crocefisso in San Bernardo, della Morte alla Madonna della Neve e della Presentazione di Maria in Santa Maria del popolo). Durante la peste del 1524 alcuni uomini della contrada di Valle si costituirono in pio sodalizio per esercitare opere di assistenza ai bisognosi e il seppellimento dei morti, prendendo l’abito nero in ricordo di quei lutti. Fu riconosciuta dall’Ordinario con decreto di mons. Galeazzo Pietra nel 1546 e fu aggregata all’Arciconfraternita romana della SS. Trinità nel 1584 assumendone il titolo e il colore dell’abito (rosso; quello nero sarà preso dalla Confraternita della Morte nel 1599, poi in Santa Maria della Neve). Nel 1588 fu aggregata all’Ordine della Mercede (che si occupava del riscatto dei cristiani fatti prigionieri dei pirati mussulmani). Soppressa nel 1801 restò nella propria chiesa (parrocchiale dal 1532) fino al 1806, trasferendosi poi nella nuova parrocchiale di San Pietro martire. L’ultimo atto risale al 1942. Si conserva in chiesa parrocchiale, nella cappella di San Cristoforo, il prezioso stendardo ricamato della Confraternita (inizi sec. XVIII) in una bacheca.


IX – LA DECADENZA E LA RINASCITA

Il secondo dopoguerra, con le trasformazioni sociali e anche urbanistiche di quest’angolo di Vigevano, divenuta immediata periferia industriale, segnò un mutamento radicale anche per la chiesa del Cristo. La frequentazione più rarefatta, la precarietà della custodia e l’inarrestabile degrado delle strutture architettoniche, segnarono un lento e inesorabile declino dell’edificio sacro. Nel 1984, venuta a mancare la presenza di un sagrestano, e a seguito di alcuni furti perpetrati ai danni della suppellettile antica, si dovette chiudere al culto la chiesa. Presto i segni del degrado si fecero pericolosi: il tetto della casa, parzialmente crollato per la nevicata del 1985 fu rifatto a spese della parrocchia. Anche dal punto di vista statico i problemi si fecero preoccupanti: una serie di profonde lesioni sulla facciata, che si estendevano alla volta dell’ingresso e minavano la statica della cupola, erano i segni del dissesto dei muri di fondazione del lato verso via dei mulini, accentuato dalla scorretta apposizione dei carichi del campanile , reso pericolante per lo scollamento dei muri sottostanti di chiesa e casa (risolto solo nel 2002). Le coperture minacciavano rovina, l’intonaco esterno era quasi del tutto degradato; l’umidità interna rendeva rovinoso l’aspetto dell’interno. Era necessario intervenire quanto prima, se si voleva salvare questo edificio, e con un intervento radicale ed accurato.

Un fattivo interessamento per la salvaguardia della chiesa fu avviato da alcuni cittadini aderenti al  F.A.I. che promossero una campagna di sensibilizzazione a livello di istituzioni e di cittadinanza che trovò l’appoggio della parrocchia di San Pietro martire, proprietaria dell’immobile.

Si prese carico della parte progettuale ed esecutiva, a titolo gratuito, il prestigioso studio degli arch. Vielmi e Rossi di Vigevano, noto per interventi sul patrimonio artistico cittadino (castello, chiostro dell’Assunta). Si era nell’anno 1991.

All’inizio del 1992 fu elaborato un progetto di interventi, coordinato dal prevosto mons. Cerri e dalla delegazione F.A.I. di Pavia, con il contributo di enti, fondazioni, associazioni, privati, professionisti e della Cooperativa muratori e affini che intese ricordare il novantesimo di fondazione. Scopo dell’intervento era il ripristino integrale della chiesa e dei locali annessi, restituendo al culto chiesa e sagrestia e recuperando i locali superiori per una destinazione culturale gestita dal F.A.I. I lavori cominciarono lo stesso anno, con il rifacimento dei tetti della chiesa e il riassetto statico e il consolidamento dell’intera struttura, intervenendo particolarmente sulla cupola. Vennero inoltre completamente rifatti gli intonaci interni ed esterni, dopo aver tentato il risanamento del sottosuolo e delle murature. Con notevole impegno, anche finanziario, si pose mano al recupero degli stucchi e delle modanature della cupola. Furono consolidate le superfici e la descialbatura permise il ritrovamento di tinte antiche insperate. Al centro della cupola fu ritrovato l’affresco raffigurante angeli musicanti, con annose lacune; i cartigli rilevarono cartelle marmorizzate a finto marmo nero con scritte ormai illeggibili.  L’insieme, ripulito dalle pitture di inizio novecento, assumeva col ripristino e il risarcimento accurato e discreto delle parti rovinate un aspetto del tutto inimmaginabile agli inizi dei lavori, perfettamente settecentesco. I restauri furono eseguiti dallo studio Villa di Bergamo. L’altare marmoreo fu integralmente ripulito e restaurato con integrazioni e stuccature.

La prima parte dei lavori si concluse nell’inverno del 1995.

La chiesa poteva dirsi completata, ad eccezione del pavimento da posare sulla gettata in cemento del vespaio d’ areazione; la sagrestia,col pavimento percorso da trincee per l’impianto di riscaldamento e le pareti scrostate, appena agibile, mentre gli altri locali erano ancora impraticabili. In una domenica di marzo del 1996, per la giornata nazionale del F.A.I., il Cristo fu aperto per la prima volta a numerosi Vigevanesi e turisti nel suo rinnovato, e inaspettato, splendore.

La sera del 1 maggio la chiesa è finalmente riaperta al culto, per la recita quotidiana del S. Rosario. Sull’altare è una vecchia tovaglia prestata da San Pietro martire; i vecchi candelieri, trovati in solaio, sono allineati con le candele di legno dipinto un pò inclinate; vasi di vetro scompagnati recano le rose rosse dell’annoso albero rampicante sopravvissuto, presso la scala del cortile, chi sa come, all’abbandono e al cantiere. Una parrocchiana presta una piccola statua della Madonna in gesso. I fedeli del vicinato cominciano ad affollare le funzioni: dalla legnaia si riportano in chiesa i vecchi inginocchiatoi; gli scout prestano le panchine, da cantine di gente amica saltano fuori vecchie sedie per le persone che crescono ogni giorno di più di numero.

Da questo momento, si fa carico la parrocchia di San Pietro martire di trovare il modo di finanziare il completamento dei restauri. Nell’estate si rende agibile la sagrestia, ripristinando il grande armadio; solo in seguito sarà restaurata la credenza settecentesca (rifacendo le ante scolpite trafugate anni prima), e si provvederanno mobili e arredi, per lo più antichi, provenienti da donazioni o acquisti. Nel 1997 viene rifatto il pavimento della chiesa, utilizzando in parte le vecchie piastrelle di cotto variegato originarie e in parte elementi nuovi imitanti quelle antiche. Nel 1999 si revisionano le coperture della casa e a completare gli impianti elettrici e di illuminazione; è sistemato il cortile, riparata la scala esterna e il ballatoio, aggiustati e  verniciati i serramenti, costruito un servizio igienico. Nel 2001 si affronta l’ingente spesa della ristrutturazione del campanile e della casa: la muratura, per oltre tre metri ridotta in precarie condizioni, è integralmente sostituita con materiale coevo, e si rinnovano completamente gli intonaci di tutte le parti esterne con calce colorata, secondo i dettami della Sovrintendenza. Anche il campanile è restaurato, intervenendo sui pilastri della cella e sanando le lesioni strutturali, legando tra l’altro i muri di facciata di casa e chiesa. Nel 2002 sono demoliti i solai in legno della casa, semicrollati, e ricostruiti mantenendo le caratteristiche originali: il rifacimento coinvolge pareti e pavimenti, recuperando l’ambiente sottostante come seconda sagrestia e quello superiore come saletta per riunioni. Nel 2003 è integralmente restaurata la scala interna e i pavimenti in cotto originali, sostituendo le parti rovinate con materiale antico. Le pareti interne della chiese, danneggiate negli intonaci a causa dell’umidità perdurante, sono pure restaurate. Negli stessi anni si provvede alla suppellettile della chiesa, rovinata e in parte sottratta durante gli anni d’incuria; candelieri, reliquiari e gli altri arredi sono integralmente restaurati e affiancati da altri, spesso d’epoca. Anche il corredo di biancheria è ripristinato, grazie all’opera di donne volenterose; i paramenti antichi sono restaurati e se ne aggiungono di nuovi. Nel 2000 è rinnovata la via Crucis e restaurata la statua della Madonna (affiancata nel 2004 da quella del Sacro Cuore, e, in sagrestia, dai simulacri dell’Immacolata e di San Giuseppe). Nel 2003 viene messo in sicurezza il tabernacolo; è restaurata l’antica campana, affiancandone altre due, intonate, a formare un piccolo concerto. Nella primavera 2005 si provvede all’impianto di riscaldamento della chiesa, con termoconvettore. Nelle stesse settimane viene acquistato da una chiesa di Torino il grandioso organo a canne per rendere più solenni le liturgie, a 6 registri e più di 300 canne, collocato nell’allargata cantoria sull’ingresso. Seguono i lavori di finitura degli intonaci esterni (già in parte compromessi dall’umidità), ripristinando le parti decorative della facciata, e ponendo canali di gronda sul campanile e sulla cupola.

Le numerose ultime opere sono state realizzate con il contributo di fondazioni ed enti, ma soprattutto con l’apporto costante e generose delle offerte dei fedeli.


XII TRADIZIONI E FESTE

Dopo la riapertura al culto, nel 1996, si è tornato a festeggiare il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, il 14 settembre, festa titolare della chiesa con un triduo di predicazione e il Vespro cantato e la Messa solenne il giorno della festa, conclusa con la benedizione con la reliquia della Santa Croce, conservata abitualmente in sagrestia, esposta sull’altare in quei giorni. Negli anni la partecipazione dei fedeli è continuamente cresciuta insieme all’addobbo interno ed esterno della chiesa, così da ricreare il clima di festa rionale d’altri tempi, che coinvolge specialmente gli abitanti dei dintorni. Acconto ai riti religiosi, si sono unite altre manifestazioni, come concerti di musica sacra (per lo più da camera) e iniziative volta a raccogliere fondi per i restauri, come l’incanto delle torte e il pozzo di San Patrizio. Fin dalla prima edizione (2001) il concerto di chiusura delle feste patronali cittadini per il Beato Matteo, che si svolge con grande partecipazione nella chiesa di San Pietro martire la terza domenica d’ottobre, si è prefissato la raccolta di fondi per i restauri del Cristo.

Fino alla chiusura della chiesa, la festa del Cristo era molto sentita e partecipata, e continuava alla terza domenica di settembre (dopo la festa della Madonna dei sette dolori). Il più antico resoconto, si trova in una memoria del parroco di San Cristoforo don Ambrogio Vismara, che nel 1790, parlando delle feste della parrocchia scrive al n°10: finalmente, la domenica fra l’ottava dell’Esaltazione della Santa Croce il Parroci nella chiesa del Cristo, volgarmente detta “della Resega” celebra la festa solenne della Santa Croce. Ivi assiste alle confessioni, canta la Messa solenne, si dà la benedizione col SS.mo Sacramento alla mattina e alla sera si mette alla riffa un agnello, dal quale per lo più si ricava il doppio. Per tutto questo il parroco non riceve alcun emolumento essendo l’amministratore e il benefattore di detta chiesa[1]

 Da qualche anno, poi, si usa festeggiare con Messa solenne, esposizione del quadro, e bacio della reliquia, la festa di San Luigi Gonzaga, il 21 giugno, con la partecipazione della gioventù della parrocchia.

Durante l’anno, oltre alla recita quotidiana del S. Rosario durante il mese di maggio, si svolge nei venerdì di quaresima la pratica della Via Crucis. Il giovedì santo si allestisce il tradizionale altare della reposizione, che viene visitato da moltissimi fedeli, che hanno aggiunto il Cristo al giro dei sette sepolcri. Il venerdì santo, poi, si espone, secondo la tradizione, il crocefisso ligneo usualmente appeso in sagrestia.

Parlando di tradizioni, è bene accennare a quanto raccontano i nostri vecchi. Nei tempi andati, si racconta, la chiesa del Cristo era meta di quanti pregavano per essere liberati da malattie o possessioni diaboliche. Venivano davanti all’altare recitate dai sacerdoti preposti, le preghiere rituali di esorcismo, a cui seguiva la benedizione con la reliquia della Santa Croce. Essa, d’altronde, è lo strumento di vittoria che ha cancellato nell’uomo, redento dal Cristo salvatore il peccato. I vecchi, per l’appunto, a confermare questa usanza, mostrano le quattro figure grottesche che ornano i cartigli degli spicchi della cupola, appena sopra i cornicioni: quelli verso l’altare hanno sembianze demoniache (con corna molto ben marcate).

[1] Manoscritto dell’ ASPSPMV.


XIII – UN PO’ DI CATECHESI

In otto cartigli della cupola sono state dipinte alcune scritte in latino, inneggianti alla Santa Croce, tratte dal Breviarium Romanum[1] per la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Può essere interessante leggerle e commentarle.

Cominciamo dalla calotta della cupola: verso l’altare i due cartigli vanno letti assieme, da destra:

PER LIGNUM  / SERVI /  FACTI SUMUS e PER LIGNUM / REDEMPTI /  SUMUS

(ant.1 vesperis)

PER IL LEGNO SIAMO STATI FATTI SCHIAVI - PER IL LEGNO SIAMO STATI REDENTI.

A causa del frutto dell’albero del Paradiso Terrestre  (lignum) Adamo e la sua discendenza furono prigionieri del peccato, fino a Cristo, nuovo Adamo, che con la sua morte sul legno della Croce ha redento dal peccato l’umanità.

Lo stesso per i due cartigli di fronte, verso l’ingresso:

HOC SIGNUM / CRUCIS ERIT / IN COELO e CUM DOMINUS / AD IUDICANDUM /  VENERIT

(ant. 1 Vesperis)

QUEESTO SEGNO DELLA CROCE SARA’ IN CIELO QUANDO VERRA’ IL SIGNORE A GIUDICARE

Il segno della Croce, strumento della redenzione dell’umanità, sarà il cielo il giorno del giudizio universale, quando Cristo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine.

Sulla cupola, a destra, verso l’altare:

CHRISTE REX / PRO NOBIS IN CRUCE / EXALTATUS

(ant. Inviatatorium in matutinum)

CRISTO RE PER NOI INNALZATO SULLA CROCE

Come nell’Antica Alleanza il serpente innalzato sulla verga di Aronne fu strumento di salvezza per il popolo d’Israele, così Cristo, Figlio di Dio, appeso alla croce è il mezzo per cui sono salvati i battezzati, nuovo popolo d’Israele. La croce è il trono da cui regna e sconfigge le tenebre e il peccato Cristo, Re e Signore dell’Universo

Nel cartiglio a sinistra:

SALVATOR MUNDI / SALVA NOS / PER CRUCEM TUAM

(ant. In III nocturno)

SALVATORE DEL MONDO SALVACI PER LA TUA CROCE

La Croce di Cristo, nel misterioso compimento della volontà di Dio, è il mezzo della redenzione dell’uomo, che viene così associato alla passione e morte del Signore per essere con lui glorificati nella Sua resurrezione.

Nel cartiglio a destra, verso l’ingresso:

ECCE CRUCEM DOMINI / FUGITE / PARTES ADVERSAE

(ant. I ad Laudes)

ECCO LA CROCE DEL SIGNORE : FUGGANO I SUOI NEMICI

La croce di Cristo ha salvato l’umanità spezzando il giogo del peccato che allontana gli uomini da Dio: il diavolo è così sconfitto e la morte non ha più potere.

In quello a sinistra:

CHRISTE / PER CRUCEM TUAM / REDEMISTI MUNDUM

(ant. In III nocturno)

CRISTO, PER LA TUA CROCE HAI REDENTO IL MONDO

Il mondo, pur ferito dal peccato, ha la possibilità di partecipare alla sua redenzione, attraverso la croce di Cristo.

[1] Cioè dal volume della Liturgia delle ore, ordinato secondo i dettami del Concilio di Trento e promulgato da San Pio V nel 1568 (sostituito dall’attuale nel 1974), pars autunnalis, in festo Exaltationis Sanctae Crucis.


XIV – GUIDA ARTISTICA

La chiesa del Cristo[1] si affaccia oggi direttamente sulla strada, preceduta da un breve marciapiede, niente affatto sicuro per i passanti. Davanti, si nota, tra il selciato di via Rossini la sagoma del vecchio sagrato, delineato da pianelle in sasso recanti la scritta P.P.  Esso si estendeva in forma di trapezio irregolare, seguendo il corso della via Rossini (un tempo più stretta e delimitata da alte siepi) deviante verso l’imbocco di via del Carmine. Era delimitato da pilastrini in granito rosa (tre verso via dei mulini e tre dalla parte opposta) collegati da stanghe di ferro. Le due file, al centro, erano separate da una colonnina senza spranghe per l’accesso; i pilastrini furono purtroppo rimossi negli anni cinquanta del novecento, per pretese ragioni viabilistiche: rimane solo uno di essi, murato nel muro della casa, sullo spigolo.

La facciata della chiesa è sviluppata verticalmente, delimitata da due lesene d’ordine gigante terminanti in capitelli corinzi su basi che sostengono il timpano triangolare e il cornicione sottostante mistilineo che segue un’ampia riquadratura delimitata da cornice, che conteneva una riproduzione ad affresco del dipinto sull’altare, già del tutto scomparso agli inizi del novecento. Il portale, è delimitato da paraste e sormontato di timpano ad arco ribassato con al centro un riquadro decorativo.

Il fianco verso via Rossini, libero, mostra l’elegante decorazione a paraste e lesene a due ordini: quello superiore presenta nei lati corti riquadri sagomati. La facciatina del braccio laterale mostra in alto la finestra mistilinea: quella rettangolare, in basso, fu aperta nell’ottocento per migliorare l’illuminazione interna, senza alcuna connessione con l’insieme architettonico. Sopra il tetto si eleva la cupola, intradossata, coperta da semplice tetto a otto falde sostenuto da pilastrini in mattoni: nei lati dritti si aprono finestre mistilinee. Questa parte della chiesa non fu mai completata, e rimase al rustico; sul colmo della cupola alcuni mattoni reggono un pomo in sasso reggente la croce in ferro. Accanto alla facciata, addossato, è il campanile, la cui cella, aperta da finestre rettangolari, si eleva appena sopra l’innesto del timpano della facciata. Vi è collocato un piccolo concerto di tre campane, inaugurato dal Vescovo mons. Baggini, il 14 settembre 2003: la maggiore, risalente al 1690 è la più antica campana funzionante su un campanile della città; le due minori sono le più recenti[2]. Accanto è la semplice facciata della casa abitata un tempo dal custode: la finestra più piccola, in basso, recava un tempo un’elegante sagomatura barocca, non più ripresa dopo i restauri del 2002. Oltre si apre un piccolo cortiletto alberato con portico adibito a deposito della parrocchia; un roseto rampicante da ottant’anni decora la scala esterna.

Si accede all’ interno dal portone in legno, consolidato e restaurato recentemente, che reca all’interno, nelle ante superiori, l’incisione 1751. Nell’andito, a sinistra, è appesa un’artistica scultura realizzata e donata nel 1998 alla chiesa dall’artista vigevanese Angelo Penza raffigurante il Cristo crocefisso. Sopra l’ingresso è la cantoria in legno, decorato con specchiatura di gusto ottocentesco, ampliata nel 2005 in occasione della collocazione dell’organo liturgico a canne, acquistato dalla basilica di San Lorenzo di Torino. Lo strumento, giudicato di pregio, della casa organaria Chichi-Tamburini, è stato realizzato nel 1972 e restaurato nel 1995 e nel 2005 nella nuova collocazione; ha 6 registri e 300 canne.

Oltre la tribuna, alzando gli occhi si può ammirare la splendida architettura della chiesa: pur nelle ridottissime dimensioni, l’ignoto architetto ha realizzato un organismo elegante e grandioso, proiettato nell’artistica cupola, riccamente decorata con stucchi a forte rilievo. La chiesa è a pianta centrale e corpo ottagonale con quattro bracci perpendicolari: quelli dell’ingresso e dell’altare sono dilatati e coperti da volta a botte ornata di tre cassettoni baroccamente sagomati in riquadrature ornate di volute e teste di putto in stucco. Le pareti laterali sono percorse da semplici lesene terminanti in un cornicione aggettante con particolari di gusto classico. I lati trasversali dell’ottagono sono occupati da grandi basi per le sovrastanti colonne binate con riquadro a finto marmo; quelli verso l’ingresso recano due acquasantiere a forma di conchiglia in marmo rosso; verso l’altare a destra, è la vecchia cassetta delle elemosine in ferro, con cartiglio con scritta dorata. Sopra le basi si elevano otto colonne binate dipinte in nero terminanti in capitelli in stucco di eleganti linee barocche con volute, riccioli, frutti, fiori e volti di putti. Le lunette dei bracci sono occupate lateralmente da finestre mistilinee (quella sinistra è solo dipinta), sopra l’ingresso, dalle canne di facciata (in zinco) dell’organo, e sull’altare da un affresco raffigurante tre angeli con nuvole e palmette (simboli del martirio) di inizio novecento. Sopra il cornicione si innesta il tamburo della cupola, occupato nelle vele sopra le colonne da quattro grandi cartigli mistilinei delimitati da cornici in stucco che, attraverso festoni con frutti, si collegano ad altrettanti medaglioni ovali sopra gli archi dei bracci. Sopra i cartigli (che recano su fondo nero marmorizzato scritte in oro inneggianti alla Santa Croce) sono volti d’angelo alati, e sotto facce grottesche. Questa parte è conclusa da una cornice recante decorazioni a rilievo colorato che lasciano il posto, sulla sommità, a curiose decorazioni in stucco a motivi alternati. Qui comincia la vera calotta della cupola, innestata però a filo dei muri inferiori; in questo modo, unitamente all’illuminazione soffusa di quattro finestre mistilinee, è creato un singolare effetto prospettico che pare dilatare ulteriormente gli spazi. Le finestre sono incorniciate da decorazioni in stucco con volute e putti sovrastate da cartelle simili a quelle sottostanti, a loro volta inquadrate da cornici con decorazioni e conchiglie. Lateralmente si allungano otto fasce decorative costituite da teorie di frutti terminanti con figure intere di putti che sostengono l’articolata cornice, con parti dorate, a forte rilievo, contenenti un affresco di angeli musicanti con putti e strumenti musicali, di curiosa fattura arcaizzante, coeva alla cupola (1750 circa): al centro tre cerchi di volto d’angelo delimitano una raggiera eucaristica. Il dipinto mostra gravi lacune, non risarcite durante l’ultimo restauro, e già esistenti nel 1901; in occasione di quell’intervento l’affresco era stato coperto da un dipinto raffigurante la colomba dello Spirito Santo.

Nella parete del braccio sinistro sono allineate le stazioni della via Crucis: le cornici in legno dorato appartengono i quadretti originari, un tempo appesi alle pareti, contenenti preziose stampe settecentesche. Furono trafugate anni fa e furono rimpiazzate dalle attuali riproduzioni a colore, benedette il 14 settembre 2001.

L’unico altare è sovrastato dall’affresco contenuto in nicchia centinata ad arco (lo spessore è dipinto a finto marmo), protetta da vetro con cornice in legno e gesso decorato e dorato di metà ottocento. A quell’epoca appartiene l’ancona dipinta con tinte imitanti il marmo con illusioni di rilievo architettonico (la si osservi di lato per coglierle). Di gusto neoclassico, è costituita da due colonne con capitello ionico reggenti la trabeazione culminante in volute di gusto classico.

Sollevato da due gradini in marmo rosso (rifatti modernamente), si trova l’elegante altare di linee barocche in marmi policromi elegantemente sagomati: di particolare pregio l’articolato paliotto sotto la mensa; questa presenta il vano della pietra sacra col sacello delle reliquie e le croci della consacrazione. Abbiamo già accennato circa la provenienza originale dell’altare, eseguito da maestranze lombarde di inizio sec. XVIII. Ai lati dell’alzata per i candelieri è il grande tabernacolo marmoreo, di elaborata architettura: lo sportello è incorniciato da pilastrini con capitelli corinzi in stucco. Il tabernacolo in metallo a cassaforte è stato collocato nel 2003, restaurando e dorando lo sportellino in lamina di rame sbalzata con l’esaltazione della Santa Croce (inizi sec. XIX). Dal 5 aprile 2000, col permesso del Vescovo, si conserva regolarmente il SS. Sacramento. Ai lati sono sospese due lampade in ottone e in alto una corona in legno scolpito e dorato (seconda metà sec. XVIII) da cui si tende il padiglione in seta nelle feste solenni, secondo l’antica consuetudine. A lato dell’altare, a destra, è l’incavo per le ampolline, con cornici in stucco.

All’incontro dei bracci laterali, su basamenti in legno di noce scolpito (ricavati dagli inginocchiatoi dello Scurolo del Beato Matteo, di inizio novecento), sono le statue in gesso della Madonna Assunta e del Sacro Cuore di Gesù.  Accanto, tra le colonne, due quadri raffigurano San Pio da Pietralcina e il Beato Giovanni XXIII. Accanto al finestrone del braccio destro (entro cornici) e tra le colonne verso l’altare sono appesi molti cuori ex voto in metallo e argento, alcuni dei quali aggiunti negli ultimi anni; un tempo erano ancor più numerosi e ricoprivano le colonne e le pareti attorno al dipinto del Cristo Crocefisso. I banchi, moderni, sono stati offerti nel 1999; i vecchi inginocchiatoi, ottocenteschi, sono collocati nelle stanze al piano superiore della casa.

Nel braccio sinistro si apre la porta che conduce alla sagrestia, locale piuttosto vasto, coperto da volta a padiglione con vela in corrispondenza della finestra. La parete verso la chiesa è occupata dal banco da comunione in noce, baroccamente sagomato (sec. XVIII) un tempo davanti ai gradini dell’altare a mò di balaustra. Sopra è appeso un grande crocefisso ligneo dipinto, della seconda metà del ‘700, e accanto due medaglioni in stucco con il volto della Madonna Addolorata e di San Giovanni Apostolo, importanti sculture del settecento lombardo, singolari per la forte espressività drammatica. Erano appesi accanto all’affresco, in chiesa; sono stati restaurati nel 1998 recuperando la cromia antica. Dalla parte opposta è la bella credenza in legno di noce del 1754: sottratte le ante e compromessa gravemente da tarli ed umidità, è stata reintegrata e restaurata nel 2002. A lato è un grande armadio murato in legno (coevo alla costruzione della sagrestia) restituito nel 1998 (era ricoperto d’intonaco da muro) e di fronte un mobile di fine ottocento, dalla tipica conformazione da sagrestia, acquistato nel 2002. Dal soffitto pende un prezioso lampadario ottocentesco, in cristallo, donato nel 2004. La chiesa possiede alcuni pregevoli arredi settecenteschi: una serie di carteglorie, reliquiari ad ostensorio e candelieri recanti nel piede la Crocefisso, in lamina di rame argentato sbalzato e cesellato, completamente restaurati recentemente; si sono aggiunti numerosi altri arredi per la maggior parte antichi, con acquisti mirati dal mercato antiquario. Si è andato ad arricchire il corredo di paramenti sacri, ricostituendo quello originario, solo in parte giunto a noi[3].

Attraverso una porta, antica, si accede al corridoio che immette in un locale di servizio, con soffitto ligneo (restaurato), ove si ripongono gli arredi della chiesa. Si noti il grande armadio con ante sagomate degli inizi del sec. XVII (giaceva ridipinto e tarlato in un deposito della Parrocchia). Per una porticina si accede al piano superiore, attraverso la scaletta a chiocciola in mattoni, piuttosto irregolare, ripristinata nel 2002. Dal ballatoio si accede alla cantoria della chiesa, alle corde delle campane e a un corridoio che immette in una saletta per incontri con soffitto ligneo anch’esso restaurato; tra i mobili antichi, l’armadio contenente l’archivio della chiesa, con ante sagomate in stile di inizio ottocento (donato nel 2001). Nell’altro locale, si noti il pavimento originario in cotto variegato (analogo a quello della chiesa).

[1] Una lettura del monumento nella sua evoluzione architettonica e nel suo contesto urbanistico e storico, è fornito da S. Rossi – B. Vielmi, Il vecchio e il nuovo nella chiesa del Cristo in Viglevanum II (1992).

[2] Sono state poste tre targhe commemorative. La prima campana, antica, misura 42 cm di diametro e pesa 50 kg; è armonizzata in LA: AD ONORE DELLA SS. TRINITA’ E DELLA BEATA VERGINE MARIA PERCHE’ PROTEGGANO E SANTIFICHINO LA CITTA’ DI VIGEVANO. FUSA NELL’ANNO DEL SIGNORE 1690, TRASFERITA DALL’ANTICA PARROCCHIALE DI SAN CRISTOFORO NEL 1806 E QUI COLLOCATA. RESTAURATA NEL 2003. La seconda, è 35 cm e 40 kg: AD ONORE DELLA B.V. DEL S. ROSARIO, DI SAN FRANCESCO D’ASSISI, E DEL BEATO MATTEO CARRERI, PERCHE’ PROTEGGANO E SANTIFICHINO LA PARROCCHIA DI SAN CRISTOFORO. FUSA E COLLOCATA NEL 2003. La terza, è 25 cm e 30 kg: AD ONORE DI MARIA SS. AIUTO DEI CRISTIANI, DI SANTA CATERINA DA SIENA E DELLA BEATA CATERINA NAJ SAVINI , PERCHE’ PROTEGGANO E SANTIFICHINO IL RIONE DEL CRISTO. FUSA E COLLOCATA NEL 2003.

[3] Segnaliamo una pianeta in taffetà rosacea ricamata della seconda metà del sec. XVIII, e una coppia di tunicella in lamiglia dorata (inizi sec. XIX). 


XV – PREGHIERA AL SS. CROCEFISSO

Nel settembre 2003, a seguito di numerose richieste, sono state stampate in migliaia di copie le immagini con la riproduzione del SS. Crocefisso e la preghiera appositamente composta dal Vescovo mons. Baggini.

SIGNORE GESU’ CRISTO, SIAMO QUI DAVANTI  A TE A RENDERTI GRAZIE PERCHE’ OFFRENDO LA TUA VITA E VERSANDO IL TUO SANGUE SULLA CROCE, HAI REDENTO L’INTERA UMANITA’ E HAI CANCELLATO I PECCATI DEL MONDO. DA QUATTRO SECOLI ATRAVERSO QUESTA SACRA IMMAGINE

TU DISPENSI ABBONDANTI GRAZIE AI TUOI FEDELI E ORA CI RINNOVI L’INVITO A VENIRE A TE. GUARDA A NOI CHE DAVANTI AL TUO ALTARE IMPLORIAMO LA TUA DIVINA MISERICORDIA. PER I MERITI DELLA TUA PASSIONE E MORTE, ACCOGLI LA NOSTRA DOMANDA DI PERDONO E DI AIUTO, E DEGNATI DI CONCEDERCI LE GRAZIE CHE CON CUORE SINCERO IMPLORIAMO. TE LO CHIEDIAMO FIDUCIOSI NELL’INTERCESSIONE DEI SANTI FRANCESCO E CATERINA GENUFLESSI AI TUOI PIEDI. INSEGNINO A NOI LA VIA PER SEGUIRE TE E UNIRE LA NOSTRA VITA AL SACRIFICIO DELLA CROCE CHE OGNI GIORNO RINNOVIAMO NELL’EUCARISTIA.    AMEN

 CHRISTO REGE

 

 

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